Altri contributi,  CONFLITTI E PROSPETTIVE DI PACE

Il potere militare: l’evoluzione delle Forze Armate in Myanmar (2/4)

Pubblichiamo a puntate la tesi di laurea magistrale di Andrea Castronovo, intitolata Il conflitto civile in Myanmar: un’analisi degli attori e delle prospettive di pace, uscita nel 2020 (Corso di Laurea in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano). La foto di copertina è di Hkun Lat, fotografo e documentarista del magazine Frontier Myanmar.


Leggi il primo paragrafo

 

 

 

1.2

L’evoluzione della dottrina militare e del concetto di sicurezza

 

 

Fin dalla sua nascita, il Myanmar è sempre stato segnato dalla guerra civile, il conflitto più duraturo della storia contemporanea mondiale. Nell’immediato post indipendenza, la frattura interna fu talmente profonda che nella narrazione delle dinamiche politiche nazionali, i media internazionali si riferivano al governo birmano come il “governo di Rangoon (Yangon)” per quanto limitata fosse la sua influenza sul territorio statale. Il Tatmadaw riuscì solamente all’inizio degli anni Cinquanta, dopo numerose controffensive, a recuperare parte del territorio centrale, mentre le zone di frontiera rimasero sotto il controllo dei movimenti insurrezionali – principalmente il BCP e il Karen National Defence Organisation (KNDO).

Come espresso precedentemente, non solo il Tatmadaw dovette affrontare i moti rivoluzionari nazionali, ma nel 1949 si aggiunse l’occupazione delle truppe del KMT dello stato Shan, nord-est del Paese. Le truppe cinesi, controllate dal Generale Li Mi, formarono l’Anti-Communist National Salvation Army e, utilizzando come base il territorio birmano, proseguirono nello scontro con il governo comunista. Dalla prospettiva birmana, oltre ad inasprire una situazione già altamente complessa, l’azione militare del Generale Li Mi fu un attacco alla sovranità nazionale ed una minaccia (straniera) alla sicurezza del Paese. Fu proprio in queste condizioni che nei primi anni Cinquanta l’esercito birmano elaborò la sua prima dottrina militare. Nonostante la gravità del conflitto interno, il Tatmadaw identificò come minaccia principale il KMT e sviluppò una strategia militare volta ad affrontare l’invasione straniera. Il Tenente colonnello Maung Maung, l’allora General Staff officer dell’Ufficio della Guerra, fu il responsabile principale della stesura della dottrina.

Come analizzato da Maung Aung Myoe, la dottrina si basò sul concetto strategico- militare della “negazione territoriale” all’interno della più ampia strategia convenzionale della guerra totale. L’obiettivo era quello di contenere l’avanzata cinese per almeno qualche mese, sperando poi nell’intervento delle forze internazionali sotto la guida delle Nazioni Unite come precedentemente successo in Corea. Il concetto della ‘guerra totale’ venne coniato da Erich Ludendorff nel suo più celebre lavoro: Der totale Krieg (The Total War). Essa si basa sull’idea che l’intera nazione debba essere chiamata al servizio della guerra: i governi approvando leggi e attuando politiche volte a sostenere lo sforzo bellico, i ministri controllando la produzione economica, nazionalizzando le fabbriche e impostando obiettivi di produzione specifici per le necessità militari, e applicando lo stesso principio a tutti i livelli della società. Tuttavia, il Myanmar si trovava in una condizione ben diversa da un’organizzazione governativa efficiente e ciò causò l’indebolimento dell’intera strategia militare. I principali punti di debolezza della dottrina furono: la mancanza di una catena di comando adeguata, l’inefficiente struttura logistica di supporto, lo scadente programma di addestramento militare, ma soprattutto la totale assenza di risorse economiche e tecnologiche a disposizione delle forze armate.1

La prima azione militare in cui venne testata l’efficacia della nuova dottrina fu l’operazione “Naga-Naing” (Dragone Vittorioso) contro le forze del KMT nel febbraio del 1953. L’operazione fu un totale fallimento a causa dell’incapacità strategica nello studio del territorio e della scarsità delle risorse impiegate. Il Tatmadaw subì una tale umiliazione che l’azione militare venne successivamente rinominata “Naga-Shone” (Dragone Sconfitto)2. Nonostante l’evidente fallimento della dottrina di Maung Maung, essa rimase la strategia su cui si basò l’azione militare del Tatmadaw fino alla metà del 1960. Nel corso degli anni la tattica militare subì alcune modifiche e le forze armate birmane riuscirono ad ottenere anche qualche successo contro il KMT, ma risultò comunque evidente che l’intera struttura militare della nazione non era in grado di avanzare delle controffensive tali da sconfiggere i nemici interni ed esterni. Ma se fino a quel momento la dottrina militare riuscì ugualmente nell’intento di evitare l’avanzata nemica, creando una situazione di stallo, alla fine degli anni Cinquanta essa divenne completamente inconciliabile con il campo di battaglia nazionale. Ciò fu determinato dal cambiamento strategico dei ribelli che passarono da tattiche di guerra convenzionali a tattiche di guerriglia3.

Nel 1958, alla conferenza annuale dell’esercito birmano, chiamata Commanding Officers’ conference, il Colonnello Kyi Win presentò il report ‘Military Strategy and Tactics in Counterinsurgency’, all’interno del quale venne elaborata una nuova strategia militare. Come argomentato dallo stesso Kyi Win, alla fine degli anni Cinquanta era evidente che il Tatmadaw non aveva una chiara strategia per affrontare i ribelli comunisti4. Anche se l’esercito birmano possedeva una minima esperienza di tattiche di guerriglia, dato il suo ruolo durante l’occupazione dell’impero britannico e giapponese, esso però non aveva alcuna competenza in tattiche di contro-guerriglia (COIN). Dato il netto cambio di tattica dei nemici, Kyi Win sottolineò l’inefficienza dell’utilizzo di tattiche di guerra convenzionali contro le forze armate che basavano la loro capacità militare sul principio hit and run (colpisci e fuggi). Questo perché la strategia dei ribelli non prevedeva il ruolo della difesa della propria posizione, essenziale nella guerra convenzionale, ma al contrario si basava su attacchi a sorpresa seguiti dall’immediato abbandono del campo di battaglia5.

Durante il primo governo indipendente birmano (1948 – 1958), rappresentato dal primo ministro U Nu, l’esercito militare crebbe in misura straordinaria, raggiungendo i 110 mila soldati. L’evoluzione della capacità militare dell’esercito, insieme all’instabilità politica, portò il Generale Ne Win, il 24 settembre del 1958, a schierarsi a favore di un colpo di stato per ristabilire l’ordine sociale. Per evitare un’ulteriore destabilizzazione nazionale, U Nu optò invece per “invitare” i militari a stabilire un governo legittimo per un periodo di sei mesi, alla fine del quale loro stessi avrebbe dovuto indire le elezioni generali. Il governo militare rimase al potere per diciotto mesi e solo dopo concesse le elezioni. Questo governo venne chiamato Caretaker government e l’atto con il quale prese il potere fu descritto come un colpo di stato costituzionale (constitutional coup).

Un passaggio essenziale nell’analisi della prima dottrina del Tatmadaw fu la presenza del KMT e la sua capacità di radicarsi all’interno di una già complessa realtà conflittuale birmana. L’occupazione del territorio birmano del Generale Li Mi faceva parte di una strategia a breve termine che si sarebbe dovuta concludere con il successo militare delle controffensive nella regione cinese dello Yunnan e il successivo ritorno in patria dei soldati. Tuttavia, dopo le due fallimentari offensive in Yunnan nel 1951, le truppe cinesi furono costrette a modificare la propria strategia e iniziarono così a radicarsi nel territorio birmano per una resistenza armata di lungo periodo. Dato il cambiamento di tattica, le truppe nazionaliste cinesi iniziarono a instaurare dei rapporti con i gruppi ribelli birmani e nel 1953 stabilirono un’alleanza con il KNDO. Nel febbraio dello stesso anno, con l’inizio delle azioni militari congiunte dei due attori, il conflitto con il Tatmadaw si intensificò profondamente6. Ciononostante, negli anni a seguire la minaccia dei nazionalisti cinesi in Myanmar si ridusse drasticamente grazie alle controffensive congiunte del Tatmadaw e dell’esercito cinese comunista in aggiunta alle singole operazioni militari birmane, con particolare riferimento all’operazione Mekong del 1961. Infatti, il numero delle truppe del KMT passò da venticinquemila soldati nel 1953 ai soli diecimila nel 1962. Le poche truppe cinesi rimaste in Myanmar formarono dei piccoli gruppi armati ma non costituirono più una minaccia alla sicurezza nazionale7.

È all’interno di queste dinamiche politico-militari che si delineò la seconda dottrina dell’esercito birmano. Dato che la presenza del nemico esterno, il KMT, diminuì sensibilmente, la nuova strategia militare si basò principalmente sulle tattiche di controguerriglia con l’obiettivo di sconfiggere i gruppi armati interni alla nazione. Il primo documento disponibile che attestò il cambio delle politiche militari fu il report presentato dallo Stato Maggiore dell’Esercito (SME) all’annuale conferenza militare del 1962. Il testo, che delineava i principi generali delle tattiche di controguerriglia, venne utilizzato come manuale nei centri di addestramento militari insieme alla letteratura già esistente sull’argomento, con particolare attenzione ai testi di Mao Tse-tung, Lin Piao e Che Guevara8.

Il cambiamento dell’intera modalità d’agire di un esercito è un processo che indubbiamente necessita di tempo e risorse, fattori che però il Tatmadaw non si poteva permettere. Come dimostrato dall’intervento dei Comandanti Regionali dell’esercito alla conferenza del Tatmadaw del 1963, nelle azioni di controguerriglia svolte nell’arco dell’intero anno si presentarono le medesime problematiche: mancanza di collaborazione tra i diversi comandi militari; schieramento della maggior parte delle truppe nelle attività di presidio e messa in sicurezza delle linee di comunicazione; numerose perdite inflitte dalle imboscate nemiche; assenza di battaglioni di riserva; inadeguatezza dell’addestramento nella tattiche di controguerriglia; ed infine, la continua influenza delle strategie di guerra convenzionali con tendenza alla guerra totale9. Ma l’elemento principale che determinò – e determina tuttora – il fallimento dell’esercito nel contrastare efficacemente i gruppi armati, fu l’incapacità di ottenere il supporto delle popolazioni rurali che divennero invece profondamente interconnesse con i gruppi ribelli. Questo elemento venne immediatamente compreso dallo SME che già nel 1963 affermava:

È difficile distinguere i ribelli dagli abitanti dei villaggi. Se non possiamo distinguere i ribelli dagli abitanti dei villaggi, soffriremo. Affronteremo sempre dei ribelli che avranno il sopravvento sulle nostre operazioni. È necessario avviare delle attività organizzative nei villaggi. Ogni volta che una sezione del Tatmadaw viene inviata in un villaggio dovrebbe essere assegnata non solo per la sicurezza e la raccolta di informazioni ma anche per operazioni di pubbliche relazioni10.

Durante questa fase di discussione e formulazione della seconda dottrina militare, lo SME aggiunse la distinzione delle tre potenziali minacce per la nazione: ribelli, nemici storici con la stessa potenza militare e nemici più forti. Indirettamente, lo SME si riferiva rispettivamente ai gruppi etnici armati, alla Thailandia e alla Cina, rivali storici del Paese. I militari, nell’indicare i nemici, attribuirono anche delle rispettive strategie militari nel caso di un conflitto con ciascuno di essi:

Nel reprimere gli insorti, il Tatmadaw dovrebbe essere addestrato a condurre penetrazioni ad ampio raggio con una tattica di continua ricerca e distruzione. Esplorazioni, imboscate e guerra notturna sono parti importanti delle [tattiche] di anti-guerriglia. È anche importante vincere il supporto della popolazione nella lotta. Per contrastare un nemico con ugual forza, il Tatmadaw dovrebbe combattere una guerra convenzionale attraverso la guerra totale. Per un nemico più forte, il Tatmadaw dovrebbe ingaggiare una guerra totale del popolo [total people’s war], con un’attenzione speciale alla strategia di guerriglia11.

Furono proprio questi rapporti dello SME, all’interno delle conferenze annuali dell’esercito nel 1963 e 1964, a porre le basi per la stesura della nuova dottrina del Tatmadaw. La seconda dottrina militare prevedeva l’implementazione della people’s war (guerra popolare) con il rafforzamento delle tattiche di contro-guerriglia. La nuova strategia si basava su due pilastri fondamentali. Il primo, rappresentato dalla costituzione delle people’s militias (milizie del popolo), aveva come obiettivo la creazione di forze armate di auto-difesa, composte da cittadini, schierate come avamposto alla protezione dei villaggi. Nello sviluppo di queste forze, nel giugno del 1964, una delegazione militare venne inviata in Svizzera, Jugoslavia, Cecoslovacchia e nella Repubblica Democratica Tedesca (RDT) per lo studio delle strutture organizzative, dell’armamentario, dell’addestramento e delle strategie delle milizie del popolo locali12. Il secondo pilastro della dottrina fu quello delle “cinque colonne” (Sit Kyaung Gyi Ngar Kyaung) che simboleggiavano la sfera politica, economica, sociale, militare e pubblica della nazione. “In sostanza si trattava di una strategia di contro-guerriglia basata sulla guerra multidimensionale”13.

La creazione delle milizie del popolo destò fin da subito una serie di preoccupazioni nei militari e, in particolare, fu chiaro che se non si fosse riusciti ad eliminare i gruppi ribelli in un lasso di tempo limitato, le milizie del popolo si sarebbero potute trasformare in un asset per gruppi armati e un ulteriore pericolo per il Tatmadaw. Questa conclusione si basava sull’idea che il programma di creazione delle milizie avrebbe potuto addestrare ed armare indirettamente individui collegati con i gruppi rivoluzionari e perciò l’eliminazione degli insorti si poneva come base essenziale per la riuscita della strategia nazionale. Ad aumentare, però, le difficoltà di attuazione di tale visione si aggiunsero la scarsa disciplina delle truppe e la pessima reputazione delle forze militari diffusa tra la popolazione. Non erano rari i casi in cui i guerriglieri feriti del partito comunista birmano venivano soccorsi dalla popolazione locale, negando allo stesso tempo alcun tipo di collaborazione con il Tatmadaw. Questa difficoltà di cooperazione dell’esercito con le popolazioni rurali rappresentò una parte essenziale del fallimento delle offensive militari nei confronti dei ribelli. In questa prospettiva, nel 1968 venne aggiunto un ulteriore pilastro alla dottrina: i quattro tagli (Phyet Lay Phyet). Quella dei “quattro tagli” fu una strategia di contro-guerriglia che venne utilizzata ampiamente nel corso degli anni a venire e si basò sull’eliminazione di tutti i collegamenti di cibo, flussi di denaro, informazioni e reclutamento tra i gruppi ribelli e le popolazioni locali14. Alla base vi era l’obiettivo di sradicare le relazioni tra i gruppi armati e i civili, del tutto simile all’operazione americana Strategic Hamlet durante la guerra del Vietnam. La strategia prevedeva la divisione dei Comandi Regionali dell’Esercito in specifiche aree: “nera” quando controllata completamente dai gruppi armati; “marrone” quando entrambi gli attori esercitavano una specifica influenza; e “bianca” quando completamente libera dal controllo dei ribelli15. L’obiettivo di lungo periodo era la trasformazione di ogni area del Paese in “zona bianca”, eliminando così la presenza degli insorti su tutto il territorio nazionale. Nella sua esecuzione, la strategia dei “quattro tagli” prevedeva la ricollocazione forzata dei cittadini di una specifica area soggetta all’influenza dei ribelli. Una volta che i cittadini venivano trasferiti all’interno di una zona posta sotto il controllo dei militari, chiamata “villaggio strategico” (Byu-ha Kye Ywa), l’esercito perlustrava l’area e considerava sospetti tutti gli individui ancora presenti al suo interno. Successivamente, delle unità speciali avanzavano nell’individuazione e nella eliminazione dei nemici e, all’interno del perimetro individuato, nella distruzione di qualsiasi fonte di sostentamento a disposizione dei ribelli. Anche se all’interno delle strategie di contro-guerriglia, questa tattica era incentrata sull’eliminazione dei ribelli tanto quanto sull’oppressione e sulla persecuzione dei cittadini. Indirettamente, il governo espresse con assoluta violenza la sua posizione: non avrebbe tollerato alcuna interferenza civile nel conflitto interno. Oltretutto, la condizione dei cittadini all’interno dei villaggi strategici era pressoché estrema. Essi erano obbligati ad unirsi alle milizie del popolo, rispettare il coprifuoco e riportare qualsiasi informazione utile al Tatmadaw16. Le uniche opzioni che questa tattica draconiana lasciò alla popolazione civile furono: unirsi ai ribelli, unirsi al Tatmadaw, oppure scappare.

Come analizzato da Maung Aung Myoe, a livello teorico la nuova dottrina si basava sui “tre elementi” (Du Thone Du): popolazione, tempo e spazio, e i “quattro punti di forza” (Pamana Lay Yat): manodopera, materiale, tempo e morale. Ma nella sua applicazione, la natura dell’intero apparato militare non si discostava dalle mere strategie di guerriglia e contro-guerriglia, a prescindere dalle tattiche e dalle capacità militari del nemico affrontato. Vi era però una distinzione fondamentale nell’attuazione della dottrina ed essa era basata sulla percezione della gravità delle minacce. Se è vero che la nuova politica militare venne basata sull’eliminazione di tutti gli insorti, essa aveva anche un obiettivo di breve termine, più urgente per l’esercito: l’annientamento delle forze comuniste nella Birmania centrale e meridionale. Questa distinzione di obiettivi non venne sviluppata all’interno della dottrina militare, ma fu chiaramente seguita nell’impostazione tattica del conflitto. A livello operativo, l’esercito applicò principalmente le strategie di contro-guerriglia con la tattica dei “quattro tagli” nello scontro con il BCP nella Birmania centrale e meridionale e una combinazione tra strategie di guerriglia e di guerra convenzionale nelle aree di confine del nord del Paese. Gradualmente la strategia militare nelle zone di confine si trasformò nella difesa della propria posizione, portando il conflitto con i gruppi etnici in una situazione di stallo. La priorità concessa nello scontro con i comunisti portò ad evidenti risultati: alla fine degli anni Settanta, dopo una serie di offensive su larga scala, il Tatmadaw dichiarò di avere portato a termine la trasformazione dei territori controllati dai comunisti in zone “bianche”17. Solo successivamente alla vittoria contro le truppe del BCP, il Tatmadaw iniziò a concentrare la propria attenzione sulle zone di frontiera, più precisamente rivolta ai gruppi etnici armati del Kachin, Shan, Karen, Mon e Kayin.

Tra le fila dell’esercito vi era comunque la consapevolezza che la dottrina della people’s war non venne effettivamente implementata in Myanmar ed in caso di un’invasione straniera la struttura militare non sarebbe stata in grado di proteggere il Paese. Come espresso dal Generale Saw Maung, “su quasi 35 milioni di persone, le forze armate (esercito, marina ed aviazione) contano circa duecentomila soldati. In termini percentuali, è circa lo 0.01 percento. È impossibile difendere il nostro Paese con solo questa manciata di truppe”18.

Il 1988, l’anno della creazione della terza dottrina militare, fu uno dei periodi più bui della storia contemporanea della Birmania. L’8 agosto dello stesso anno scoppiò la più vasta manifestazione nazionale contro il regime a causa della profonda frustrazione dei cittadini e della povertà dilagante in tutto il Paese. In particolare, furono le scelte politiche e sociali del Partito del Programma Socialista della Birmania (Burma Socialist Programme Party – BSPP), salito al potere dopo il colpo di stato militare nel 1962, a portare all’esasperazione il popolo. Questi avvenimenti fecero parte di una serie di proteste popolari che influenzarono radicalmente la storia dell’intera Asia Orientale: la rivoluzione della People Power nelle Filippine nel 1986, il June Democracy Movement in Corea del Sud nel 1987 e la protesta di piazza Tienanmen in Cina nel 1989. Come descritto da David Steinberg, l’insurrezione popolare in Myanmar face perciò parte di un’onda che di fatto raggiunse l’apice della sua estensione a Seoul, dove le manifestazioni portarono effettivamente al raggiungimento di un sistema democratico, e si abbatté con tutta la sua violenza a Rangoon19. Come conseguenza dello stato di caos nazionale, causato delle manifestazioni popolari, il 18 settembre i militari attuarono il terzo colpo di stato della storia birmana, sostituendo il governo del BSPP con una struttura maggiormente militarizzata: il Consiglio di Stato per il Ripristino della Legge e dell’Ordine (State Law and Order Restoration Council – SLORC). I militari sedarono brutalmente le rivolte popolari, causando migliaia di vittime, ed architettarono un efficientissimo meccanismo nazionale di persecuzione degli attivisti politici negli anni a venire.

Fu proprio sotto queste condizioni politiche e sociali che nacque la terza dottrina militare che prevedeva la modernizzazione delle forze armate nazionali. Questa necessità si basava sulla paura del Tatmadaw di una possibile invasione straniera. Più realisticamente, l’esercito temeva il ruolo dell’influenza degli attori esterni nel rafforzamento dei gruppi armati nazionali e quindi nella possibilità che quest’ultimi raggiungessero una capacità militare tale da mettere in difficoltà le forze armate nazionali. Il timore dell’interferenza delle forze straniere nelle questioni nazionali fu il fulcro dell’azione politica e militare del post-1988. Il primo segno del programma di modernizzazione dell’esercito fu il drammatico aumento dell’acquisto d’armi e di attrezzatura militare, tra cui: veicoli corazzati da combattimento (cingolati e su ruote), semoventi di artiglieria, sistemi di difesa aerea, apparecchiature di comunicazione militare e armi leggere20. Una seconda novità fu l’introduzione delle esercitazioni militari congiunte tra l’esercito, la marina e l’aeronautica militare con l’obiettivo di introdurre i concetti di strategic denial e tattiche di controffensiva nel caso di un’invasione straniera. Il risultato di queste due politiche militari fu il miglioramento della capacità di comando operativo, del sistema di comunicazione e del coordinamento tra le diverse forze armate21. Come descritta dal Generale Maggiore Than Shwe, la nuova dottrina militare fu chiamata la “guerra popolare nelle condizioni moderne” (people’s war under modern condition), concetto preso in prestito dalle forze armate cinesi. La strategia militare, oltre a focalizzarsi maggiormente sull’armamentario e la qualità dell’addestramento delle truppe, prevedeva il cambiamento d’approccio alla guerra: dalla difesa passiva alla difesa attiva. Nello specifico:

Al posto che attirare le forze nemiche in un’area hardcore per l’annientamento nella fase iniziale, il Tatmadaw si terrà saldamente nella posizione difensiva in modo da indebolire l’offensiva dell’invasore, per poi intraprendere le operazioni di controffensiva22.

L’innovazione teorica della “guerra popolare nelle condizioni moderne” fu l’aggiunta della tecnologia ai tradizionali elementi della dottrina birmana (manodopera, tempo e spazio). Questo segnò indubbiamente un passaggio fondamentale nella formazione di un esercito professionale e tecnologicamente avanzato che però faticò ad imporsi nella realtà birmana. Questa volontà e ricerca di modernizzazione, in contrasto tuttavia con l’effettiva capacità strutturale di cambiamento dell’esercito, emerse, ad esempio, nel confronto armato con i gruppi etnici. All’interno del dibattito sulle tattiche di contro-guerriglia ci fu un cambiamento di percezione, soprattutto tra la nuova generazione di soldati, nel considerare maggiormente l’applicazione delle tecniche di conflitto a bassa intensità (Low-Intensity Conflict – LIC) rispetto alle strategie obsolete dei “quattro tagli” e delle “cinque colonne”. Tuttavia, queste strategie tradizionali prevalsero e rimasero il cuore delle operazioni di contro-guerriglia tra le fila degli ufficiali dell’esercito23. Ciononostante, la nuova dottrina portò ad un evidente ampliamento delle forze armate, ad un miglioramento dell’equipaggiamento e della coordinazione nelle operazioni congiunte. Dall’altro lato, l’elemento più critico, in comune con la dottrina precedente, fu il ruolo del popolo all’interno della strategia militare. La necessità del Tatmadaw di ottenere il supporto della popolazione, sia per contrastare l’espansione dei gruppi etnici armati che per un’eventuale invasione straniera, rimase al centro del dibattito strategico-militare24. Ma come negli anni precedenti, questa percezione di supporto da parte della popolazione non rifletteva minimamente il sentimento nazionale che al contrario si fondava su una forte avversione nei confronti dei militari e un profondo senso di alienazione dettato dalle estreme condizioni di vita imposte dal regime.

Ma se lo studio sulla dottrina militare ci permette di comprendere il processo di militarizzazione e l’evoluzione della strategia e della tattica del Tatmadaw, ampliando maggiormente il raggio d’analisi, sarebbe altrettanto fondamentale approfondire la politica di difesa dei diversi governi birmani, includendo così le motivazioni che portarono a tali cambiamenti dell’apparato militare. In merito a questo, è necessario rimarcare come il Paese, dall’indipendenza ad oggi, non abbia mai divulgato pubblicamente un documento ufficiale a riguardo della sua politica militare, il primo ed unico Libro Bianco sulla sicurezza e sulla difesa venne pubblicato nel 2015 e distribuito esclusivamente ad un numero limitato di persone. Le ragioni di questa scelta devono essere rintracciate nell’evoluzione storica del Paese e delle sue forze armate.

Data la profonda situazione di instabilità nazionale, fin dall’indipendenza, il governo birmano ha sempre incentrato la propria attenzione in relazione ai problemi di sicurezza interni. Questa attitudine, prima giustificata dall’invasione del KMT e successivamente dallo scontro con i gruppi etnici armati, ha fatto sì che i diversi governi birmani guardassero alla sicurezza del Paese esclusivamente come a una questione di politica nazionale che non necessitava di essere esposta all’attenzione internazionale. Questa propensione nazionalista aumentò drasticamente con l’insediamento del governo militare provvisorio nel 1958 e si impose come politica nazionale con il colpo di stato militare del Generale Ne Win nel 1962. Durante i 49 anni di dittatura militare, dal 1962 al 2011, le discussioni sulle problematiche delle politiche di difesa e in materia di sicurezza nazionale non solamente furono scoraggiate ma attivamente oppresse da un sistema che inglobava lo stato, le forze armate e il governo in un unico attore.

Come suggerito da Andrew Selth, fino alla fine degli anni Novanta, gli unici riferimenti agli obiettivi generali del Paese che definivano l’approccio nazionale in materia di politica di sicurezza erano rappresentati da una serie di slogan politici frequentemente ripresi dalla retorica del regime. Essi erano rappresentati dalle tre ‘cause nazionali’, dai dodici ‘obiettivi nazionali’ e dai tre ‘desideri della popolazione’. Tuttavia, nel luglio del 1997, Than Shew, il Presidente Generale Superiore (SENGEN) del Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (State Peace and Development Council – SPDC), secondo quanto riferito, avrebbe organizzato un incontro privato con i comandanti maggiori dell’esercito per discutere della politica di difesa nazionale e delle missioni delle forze di difesa. Sulla base di questo incontro, secondo Maung Aung Myoe, sarebbe stato pubblicato, nel febbraio del 1999, un opuscolo intitolato la Breve Storia dell’Esercito del Myanmar (Brief History of the Myanmar Army). Dai vari principi elencati nel testo, vaghi e poco esaustivi, vennero però delineati per la prima volta gli obiettivi del regime militare in materia di politica di difesa:

  1. Costruire un esercito forte, capace e moderno coinvolgendo le forze ausiliari per lavorare diligentemente per la materializzazione delle nostre tre principali Cause Nazionali: Non-disintegrazione dell’Unione, Non-disintegrazione della Solidarietà Nazionale e la Non-Interferenza della Sovranità Nazionale.
  2. Formare un sistema di difesa della popolazione moderno per la sicurezza e la difesa nazionale, coinvolgendo l’intera cittadinanza, basato su forze interne senza dipendere da elementi stranieri.
  3. Rispettare le disposizioni della Costituzione dello Stato e salvaguardare la nuova nazione che emergerà secondo la suddetta Costituzione per uno sviluppo sostenibile.
  4. Addestrare e sviluppare una forza di difesa forte che possieda una prospettiva militare, politica, economica ed amministrativa in modo da partecipare al ruolo di leadership politica nazionale nello stato futuro.
  5. Portare sempre in primo piano e salvaguardare i dodici obiettivi dello Stato in modo da vedere l’ulteriore fiorire dei valori più nobili e degni del mondo come la giustizia, la libertà e l’uguaglianza per garantire la sicurezza degli interessi economici nazionali e la libertà e la sicurezza dei cittadini.25

Anche se gli obiettivi sopracitati non rappresentarono degli elementi innovativi nel pensiero e nella modalità d’agire dell’esercito birmano, si possono chiaramente osservare alcuni elementi chiave del ruolo del Tatmadaw nelle decadi successive: la volontà di mutare la propria natura dittatoriale e sviluppare un esercito con competenze governative e amministrative, imponendo così il proprio ruolo di leader della nazione; l’importanza di una nuova Costituzione, che verrà alla luce nel 2008, sulla quale basare il futuro ruolo politico e sociale delle forze armate; la necessità di trasformare l’esercito in una forza armata moderna e competitiva a livello internazionale; ed infine, il ripudio dell’influenza straniera in ogni questione nazionale, sintomo di una forte preoccupazione di possibili ingerenze straniere nelle dinamiche e problematiche interne.

Un elemento che ha fortemente influenzato, ed influenza tuttora, l’evoluzione della politica di difesa è rappresentato dalla percezione del Tatmadaw in relazione alle minacce interne ed esterne alla Birmania. Fin dal raggiungimento dell’indipendenza le forze armate birmane si dovettero confrontare con una guerra civile, altamente frammentata su più fronti, che aveva come protagonisti gli attori interni del Paese. Per questo, secondo i militari, prima del 1988 la maggiore minaccia per la difesa e la sicurezza della nazione proveniva da soggetti interni e invece, dopo il 1988, il regime si concentrò drasticamente sulle minacce esterne come elemento destabilizzatore della sicurezza del Paese.

Nel corso degli anni si è speculato molto sulla costante paranoia del regime birmano rispetto ad una possibile invasione del proprio territorio da parte di forze esterne. Le opzioni più discusse furono una possibile azione militare degli Stati Uniti oppure una coalizione delle Nazioni Unite. Questo sentimento venne sempre attribuito ad una sbagliata percezione birmana e in generale ad una fantasia di una frangia dei leader militari. Tralasciando la fondatezza dell’analisi, è importante sottolineare come nelle dinamiche interstatali le percezioni possano essere più rilevanti dei fatti e l’indirizzo della politica militare birmana ne rappresentò un esempio concreto. Lo storico delle ingerenze straniere sul suolo birmano potrebbe comunque far pensare ad una non così insensata preoccupazione dei militari: l’imperialismo britannico (1886), l’occupazione giapponese (1941), la rioccupazione delle forze inglesi (1944) e l’invasione del KMT appena dopo l’indipendenza birmana, di cui le ultime tre avvennero nell’arco di una sola generazione. Secondo la prospettiva dei militari, a peggiorare la situazione fu lo schieramento della task force della Marina militare statunitense, inclusa la portaerei USS Coral Sea, il 12 settembre del 1988 a largo della costa birmana. Ufficialmente le navi della Marina militare furono localizzate a 90 miglia nautiche a sud di Yangon, quindi in acque internazionali, e la loro presenza, secondo Washington, era dovuta esclusivamente all’evacuazione   degli   agenti   diplomatici  dell’ambasciata  americana di Yangon. L’avvenimento espose la fragilità della capitale ad eventuali attacchi nemici via mare. Anche se non ufficializzato dai militari, la costruzione della nuova capitale del Myanmar, Nay Pyi Taw, nella zona centrale del Paese, inaugurata nel 2005, fu influenzata proprio da questo episodio. I militari rimasero comunque fortemente scettici al punto da modificare la propria dottrina militare in direzione della formazione di un esercito in grado di proteggere il Paese da un’eventuale invasione esterna. Il 1988 rappresentò uno spartiacque per la sicurezza, la strategia e la politica di difesa militare dell’intera nazione.

La dottrina militare imposta nel 1988 venne supportata dall’intera macchina statale. Oltre all’incremento dell’acquisizione dell’armamentario, venne ampliato lo studio sulle strategie di combattimento moderne, con un’attenzione particolare sul LIC e la guerra di galleria (Tunnel Warfare), sulle teorie moderne dell’appartato militare, come la “Rivoluzione negli affari militari”, ed infine sulle nuove tecnologie a servizio della guerra, come il “sistema di gestione di comunicazioni sul campo di battaglia (BMS)”. Si stima che tra il 1988 e il 2000, l’esercito duplicò la sua dimensione raggiungendo le 400 mila unità, di cui 370 mila solamente nell’esercito26.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, il divario tra le forze armate e la condizione della popolazione civile raggiunse l’apice: mentre il Tatmadaw si preparava ad attuare il costoso processo di modernizzazione dell’esercito, il Paese sprofondava nella povertà più assoluta. Nel 1987 le Nazioni Unite dichiararono il Myanmar uno dei paesi più poveri del mondo e fu inserito nella lista dei Least Developed Countries (LDCs).

 

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Note:

 

1 Maung Aung Myoe, Building the Tatmadaw: Myanmar Armed Forces Since 1948, Singapore, Institute of Southeast Asian Studies, 2009, p. 17.
2 Ibid., p. 18.
3 Idem.
4 Idem.
5 Ibid., p. 19.
6 Mary P. Callahan, Making Enemies: War and State Building in Burma, op. cit., p.156.
7 Ibid., p. 173.
8 Andrew Selth, Burma’s Armed Forces: Power Without Glory, op. cit., p. 90.
9 Maung Aung Myoe, Building the Tatmadaw: Myanmar Armed Forces Since 1948, op. cit., p. 20
10 Ibid., p 21.
11 Ibid., p 21-22.
12 Andrew Selth, Burma’s Armed Forces: Power Without Glory, op. cit., p. 91.
14 Martin Smith, State of Strife: The Dynamics of Ethnic Conflict in Burma, Washington, East-West Center Washington, 2007, p. 33.
15 Andrew Selth, Burma’s Armed Forces: Power Without Glory, op. cit., p. 91.ù
16 Idem.
17 Maung Aung Myoe, Building the Tatmadaw: Myanmar Armed Forces Since 1948, op cit., p. 32.
18 Idem.
19 David I. Steinberg, Burma/Myanmar: What Everyone Needs to Know, op. cit., 2013, p. 83.
20 Andrew Selth, Known Knowns and Known Unknowns: Measuring Myanmar’s Military Capabilities, “Contemporary Southeast Asia”, vol.31, n.2, agosto 2009, p. 285.
21 Andrew Selth, Burma’s Armed Forces: Power Without Glory, op. cit., p. 93.
22 Maung Aung Myoe, Bulding the Tatmadaw: Myanmar Armed Forces since 1948, op. cit., p. 36.
23 Idem.
24 Andrew Selth, Burma’s Armed Forces: Power Without Glory, op. cit., p. 94.
25 Ibid., p. 31-32.
26 Andrew Selth, The Defence Services, in Adam Simpson, Nicholas Ferrelly e Ian Holliday (a cura di), Routledge Handbook of Contemporary Myanmar, New York, Taylor & Francis Group, 2018, p. 25.

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