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Minoranze etniche in Birmania: dalle questioni di principio alle soluzioni concrete

 

La situazione delle minoranze etniche in Birmania è il risultato di una politica applicata sistematicamente dalla dittatura militare che ha avuto il potere in Birmania dal 1962 fino al primo Febbraio 2016, data della convocazione del nuovo Parlamento Birmano uscito dalle elezioni di Novembre 2015. Tale politica aveva come obiettivo lo sfruttamento sistematico delle risorse del territorio a favore dell’oligarchia al potere e l’affermazione della supremazia dell’etnia Birmana. Questo ha portato alla negazione delle rivendicazioni delle oltre 130 etnie minoritarie presenti sul territorio dell’ex colonia Britannica, anche con uso di armi,  a al mantenimento di diverse aree del paese in situazione di guerra. Negli anni si è fortemente voluto collegare la supremazia dell’etnia Bamar al ruolo preponderante della religione buddista, fino alla promulgazione da parte del precedente governo delle “Leggi a difesa della razza e della religione”, che impediscono alle donne buddiste il matrimonio con uomini di diversa religione. Questo ha portato alla discriminazione dei cittadini birmani di religione cristiana, oltre a quelli appartenenti alla minoranza islamica del Paese. Una discriminazione resa evidente da decine di episodi, denunciati a più riprese anche dal Cardinale Charles Maung Bo.

Il nuovo governo in carica a maggioranza NLD (National League for Democracy) eredita questo stato di cose fortemente conflittuale, non potendo contare sulle risorse economiche che sono tuttora nelle mani dei militari sotto forma di aziende e attività commerciali di proprietà, non potendo inoltre contare su gettiti fiscali adeguati. Il nuovo governo si è dato come chiara priorità la pacificazione nazionale con gli strumenti della non violenza, con atti concreti che vanno in questa direzione: la liberazione dei prigionieri politici, la presentazione di un progetto di legge per “promuovere la convivenza pacifica fra le confessioni e ad agire contro coloro che disturbano questo stato di armonia”. È in questo senso che va letta la posizione del governo di non utilizzare la definizione “Royingia” per non alimentare ulteriori conflitti etnici.  È una posizione che bada al sodo della questione, che è la soluzione delle situazioni di sofferenza della popolazione, al di là delle frasi ad effetto e alle questioni di principio.

Ricordiamo che la Costituzione Birmana promulgata dalla giunta militare nel 2008, che impedisce ad Aung San Suu Kyi di essere Presidente, dispone che il 25% dei membri del Parlamento sia di nomina dell’esercito, ed attribuisce ai militari  un Viceministro e i ministeri dell’Interno, della Difesa e delle Frontiere che sono quelli più direttamente coinvolti in questi conflitti, rendendo più difficile ogni azione del governo in carica sulla questione.

Il nuovo governo Birmano si trova ad affrontare sfide importanti: le infrastrutture sono carenti nelle periferie del paese, la sanità e l’istruzione rappresentano un problema non solo per la minoranza di religione islamica, ma per la maggioranza degli abitanti del paese. In queste condizioni, si levano voci in Europa che lamentano “ombre” nel governo Birmano riguardo alla situazione dei diritti umani nel Paese. Mi sembra strano che non si senta il bisogno di contestualizzare e affermare chiaramente che il problema della popolazione Royingia sia dovuto a decenni di governo militare e alla sua dissennata politica di demagogia e sfruttamento. Chiedere al nuovo governo di normalizzare una situazione che si trascina da decenni in poco più di cinque mesi, senza adeguate risorse finanziarie ed evitando ulteriori conflitti con la maggioranza del paese è velleitario. Dirò di più: mi sembra un attacco voluto al nuovo governo, in un’area strategica tra Cina ed India, all’interno del mercato comune dell’ASEAN, con tassi di crescita importanti, una industria del turismo in pieno sviluppo, infrastrutture energetiche promosse dal governo Cinese, con importanti risorse naturali e con interessi di tante aziende, comprese quelle che con il passato governo militare hanno avuto continui rapporti e reciproci interessi.

Uno dei più grandi esperimenti mai tentati al mondo di pacificazione nazionale nel segno della non violenza dopo cinquant’anni di dittatura feroce ha bisogno del nostro sostegno. Alla democrazia che rinasce in Birmania ad opera di intere generazioni che non hanno mai potuto sperimentarla nella loro vita a mio parere non servono lezioni di diritti umani, ma sostegno concreto e informazione puntuale da parte dei paesi democratici del mondo per supportare il processo di pacificazione e di sviluppo sostenibile promosso dal governo di Aung San Suu Kyi tra incredibili difficoltà. Perché non siano interessi economici e finanziari internazionali a dirigere lo sviluppo del nuovo Myanmar.

 

Carlo Ferrari

Presidente Associazione per l’Amicizia Italia – Birmania Giuseppe Malpeli

Un commento

  • Angela Tromellini

    Ringrazio per il testo che ho ricevuto che aiuta a capire qualcosa della situazione birmana, relativa alle minoranze.
    Dall’Italia non è certo facile capirci qualcosa, anche per il caos politico nel quale viviamo immersi.
    Sinceramente grazie, anche se proseguirà a scriverne

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