Rassegna Stampa

L’autorità degli ultimi

ultimiLa città cambia sempre, perché cambia il mondo. Oggi la crisi economica, la perdita del lavoro o la mancanza del lavoro, le migrazioni, l’insicurezza, la paura del futuro cambiano la vita delle persone. In peggio. La città è più smarrita che consapevole.

Si può ancora parlare di bene comune? Qual è la soglia che rispetta la vita, la dignità della vita? qual è lo status che definisce la cittadinanza, ossia il livello di libertà, di uguaglianza, di giustizia, il patrimonio che l’intera storia dell’umanità ci ha consegnato a prezzi altissimi?

Chi sono i poveri oggi? “Saranno sempre con voi”, fu detto. Chi sono gli ultimi? solo quelli che stanno letteralmente ai margini delle strade? C’è qualcuno che lo chiede pubblicamente? e chi se ne preoccupa, e se ne occupa? Solo il volontariato, la Caritas, le associazioni, quasi per delega della comunità?

La democrazia ha definito i diritti di cittadinanza e ha fondato le istituzioni che presiedono alla solidarietà. La Repubblica è fondata sul lavoro, ed è il lavoro oggi il grande problema non risolto che abbassa la soglia della vita. Il sistema sanitario e di istruzione, il welfare, ancora tengono, quello sociale meno, ma per quanto? Il bene comune è lo scopo della politica, e la politica non è mai stata così debole come ora.

Se nella città ci sono gli ultimi, ci sono anche i primi. Sono quelli al vertice dei poteri. Alcuni sono lì da anni, li vediamo a lungo. Poi cambiano anch’essi, Parma in questi anni ne è stata un caso esemplare, a tutti i livelli. Ma cambia l’esercizio del potere?

Una città consapevole si pone queste domande e altre ancora. Forse non siamo una città consapevole.

Dunque, chi sono gli ultimi? Quelli che non hanno da mangiare, un tetto per ripararsi, un lavoro per vivere, risorse sufficienti per pagare le bollette quotidiane. Quelli che conoscono povertà più profonde: di istruzione, di relazioni, di fiducia nel futuro. Quelli che sul domani hanno solo incertezze.

Abbiamo incontrato la Birmania in questi anni, l’Associazione per l’Amicizia Italia-Birmania di Parma cresce ogni giorno in questo rapporto. Abbiamo conosciuto tanta povertà e sofferenza, un Paese sconnesso come le sue strade, e soprattutto la povertà più radicale: la paura. Nella dittatura sei solo impaurito, non vivi, cerchi solo di sopravvivere. Privato per decenni della libertà, un popolo si sente privato nelle relazioni, come fuori dal mondo, come se non ne facesse parte. La dittatura ha prodotto questo, ha cancellato le relazioni. Parlano del buio in cui vivono e guardano a noi cercando la luce. Dicono “non dimenticarmi”, e per non farli sentire soli c’è un solo modo: vivere insieme con loro, pensare con loro, anche solo per alcuni giorni. Se qualcuno si interessa di te, non sei più solo. Non sei ultimo.

Penso che la stessa cosa sia nelle strade di Parma, se nessuno si interessa di te sei fuori dalla convivenza. Sei ultimo perché non sei riconosciuto nella tua dignità. Per questo la democrazia, che rimette le cose in equilibrio, che produce dignità e diritto, è la questione più importante, in Birmania e in Italia. Con loro abbiamo incrociato le nostre vite e ciò che abbiamo ricevuto ci aiuta a vedere le “birmanie” che sono tra noi.

Quando sei impaurito, parli a bassa voce. Il tono della voce ha anche a che fare con il potere di una persona. A Rangoon abbiamo incontrato persone responsabili di associazioni, degli studenti e dei contadini, quando abbiamo parlato di politica abbassavano la voce.

A Roma, alla Farnesina, quando nell’aprile scorso la parlamentare birmana Phyu Phyu Thin ha incontrato il Sottosegretario agli Esteri e alcuni funzionari, parlava a voce bassa, con grande umiltà. Quando è fuori dal Parlamento lei si occupa ogni giorno dei malati di Aids. Davanti al potere, con lei ci sono gli ultimi. Chi dà loro voce? Chi dà voce al loro silenzio? In quella stanza Giuseppe ed io sentivamo lo squilibrio, anche planetario. Gli ultimi devono passare ai primi posti.

Abbiamo compreso un’altra cosa in Birmania. Le persone bisogna cercarle. Tornavamo in pullman da Naypydaw, sulla strada a otto corsie semideserta. Alcune donne sotto il sole mettevano “ordine” ai sassi sui bordi della strada. Ci siamo fermati, Giuseppe si è avvicinato e le ha abbracciate. Considerare persone le persone, prima di tutto. Un Paese intero abbandonato, pieno di dignità e di compassione, tra gli ultimi sulla terra, ci ha dato la gioia della relazione. Si rovescia lo sguardo, il mondo visto dal basso cambia il pensiero dell’umanità. I loro pensieri sono sapienza per noi, perché nascono da un dolore profondo. La nostra cara amica Me Soe, sorella di Lucky, con la quale eravamo in corrispondenza, strappata alla vita il primo aprile scorso da una malattia fulminea all’età di 28 anni, così ricordava sua madre, venuta a mancare poche settimane prima: “donna poverissima ma piena di dignità e coraggio. Ha lavorato fino all’ultimo nei campi con il corpo piegato sulla terra ma con il pensiero che guardava sempre in alto”. Ho pensato alle beatitudini del Discorso della Montagna.

Là dove il rapporto con il potere è estremo, come in Birmania, e l’autorità calpesta il valore dell’uomo provocando sofferenze inenarrabili, risuonano con verità  le parole del teologo J.B. Metz “sull’autorità di coloro che soffrono”: “Questa autorità è l’unica nella quale l’autorità di Dio giudice si manifesta nel mondo per tutti gli uomini”. Questa è l’autorità che da sempre riconosco in Aung San Suu Kyi.

Non è semplice vedere gli ultimi nella comunità, bisogna interrogarsi a fondo oltre la superficie, ma è vitale, perché senza di essi non esiste la comunità. Ricordo Bonhoeffer: “Ogni comunità cristiana deve sapere che non solo i deboli hanno bisogno dei forti, ma che questi ultimi non possono essere veramente uomini senza i primi. L’esclusione dei deboli è la morte della comunione”.

L’unità tra i deboli e i forti è la grande sfida del modo globale in cui viviamo, e l’unica via per la salvezza di tutti.

Albertina Soliani

* Articolo pubblicato sulla rivista Shalom della Comunità Betania di Parma.

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