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Myanmar: le cinque sfide di Aung San Suu Kyi

di Albertina Soliani

Alcune domande

Le cose che l’opinione pubblica ignora di Aung San Suu Kyi e del Myanmar sono molte di più di quelle che sa. Più di cinquant’anni di dittatura militare hanno tenuto chiuso il Paese, nel sostanziale silenzio del mondo.

È negli ultimi due anni, specialmente in Occidente, che i commenti internazionali si sono fatti sempre più frequenti e incalzanti, quando il Rakhine State ha preso l’attenzione del mondo.

La tragedia della minoranza musulmana del Rakhine, che si autodefinisce Rohingya, conosciuta come bengali nel resto della Birmania, ultima manifestazione di una storia che affonda le sue radici nei secoli, si sta rivelando come uno dei luoghi del confronto che segnerà in Asia i prossimi anni, quello tra l’Islam e la Cina. Altri fuochi si sono accesi, come la vicenda degli Uiguri al nord della Cina, e i recenti massacri nelle chiese dello Sri Lanka.

Nella vicenda dei musulmani del Rakhine la gran parte dei media occidentali ha preferito concentrarsi sul ruolo di Aung San Suu Kyi, oggi al governo del Myanmar, demolendone l’immagine di icona dei diritti umani. La cifra della delusione è prevalsa su tutto. Come se l’Occidente fosse più interessato ad affermare il principio del rispetto dei diritti umani universali che non la sua concreta affermazione dentro la complessità della politica. Poco si è detto sia delle condizioni politiche interne del Myanmar, dalle quali dipendono in gran parte anche le decisioni sulla questione del Rakhine, sia del contesto geopolitico nel quale la vicenda è inserita, sia degli interessi occidentali, islamici e asiatici in gioco. Poco si è detto delle interferenze internazionali, della penetrazione dei terroristi.

E così la grande complessità della situazione è stata sacrificata alle esigenze di una spettacolare semplificazione, concentrata sulla caduta dell’icona con la quale un tempo l’Occidente si era identificato.

Che cosa sta accadendo, dunque, in Myanmar, impegnato in una transizione che intreccia sviluppo e democrazia, un caso raro in Asia?

Che cosa accade ad Aung San Suu Kyi, la figura nella quale l’opinione pubblica mondiale aveva riposto così grandi speranze?

Che cosa sta accadendo all’Europa, sempre più marginale di fronte al mondo, specialmente sul fronte dell’Asia dove il mondo nuovo sta nascendo? Che cosa sta accadendo all’Occidente, che è sembrato ritirarsi dal confronto, spingendo di fatto il Myanmar nelle braccia della Cina? E come potrebbe aprirsi un nuovo dialogo tra Occidente e Asia, proprio attraverso il rapporto con il Myanmar?

Domande stimolanti, più vicine alla realtà di quanto non lo siano le accuse sui presunti silenzi di Aung San Suu Kyi sulla tragedia dei musulmani del Rakhine.

La mia testimonianza

Ho incontrato la Birmania una quindicina di anni fa, quando ho iniziato a leggere Libera dalla paura, il libro di Aung San Suu Kyi. Mentre ero nel Senato della Repubblica, nei primi anni duemila, nel gruppo parlamentare dell’Ulivo, poi della Margherita e infine del Partito Democratico, ho fatto parte dell’Associazione Parlamentare Amici della Birmania, fondata dal sen. Francesco Martone dei Verdi. Nel 2008 ne sono diventata Presidente. Intensa è stata l’attività parlamentare di quegli anni, a sostegno della liberazione di Aung San Suu Kyi e dei prigionieri politici, di un cambiamento in Birmania verso la democrazia.

Nel giorno della sua liberazione, il 13 novembre 2010, io ne avevo dato l’annuncio in Parlamento, tra gli applausi.

Seguivo da vicino la vicenda di un Paese che stava cercando la democrazia, mentre sentivo che la nostra, in quegli anni, si stava indebolendo. Nel dibattito nell’Aula del Senato sulla legge che dichiarava l’immunità per le cinque più alte cariche dello Stato, intervenni ricordando che la stessa norma era in vigore in Myanmar, a tutela della giunta militare.

Ho incontrato Aung San Suu Kyi la prima volta a Naypyidaw il 28 febbraio 2013. Nel Palazzo dove aveva sede il Gruppo Parlamentare dell’NLD, la Lega Nazionale per la Democrazia, il partito nato nella sua casa a Rangoon nell’agosto del 1988. Lei da un anno era in Parlamento, a capo dell’opposizione.

Entrata nella stanza, ci abbracciammo. Era come se ci fossimo da sempre conosciute. Una storia di vicinanza ci univa, nonostante gli ostacoli degli arresti domiciliari, della distanza geografica, dell’inglese e del birmano che non conoscevo.

Ero da lei con un amico e collaboratore molto caro, Giuseppe Malpeli. Giuseppe aveva cominciato a frequentare la Birmania nel 2005, portando alla madre le ceneri di Lucky, un giovane birmano conosciuto a Calcutta, perito nello tsunami del 26 dicembre 2004. Da allora sono nate infinite relazioni con il popolo birmano, e con Aung San Suu Kyi.

Quando ci incontrammo la prima volta, al termine della mia attività parlamentare, molto era accaduto tra noi, e molto sarebbe accaduto ancora.

Qualche mese dopo la prima visita, nell’agosto del 2013, tornammo da lei e la invitammo a venire in Italia.

Alla fine di ottobre di quell’anno venne a Roma, poi a Torino, a Bologna, a Parma, nei luoghi del riconoscimento del suo impegno per la libertà. A Parma ha parlato ad un migliaio di studenti. Al Teatro Regio ha assistito all’esecuzione della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, l’ultima sera del Festival Verdiano.

L’anno successivo eravamo in quaranta amici italiani nella sua casa a Yangon, il luogo dei lunghi arresti. Lì le cantammo Va’ Pensiero.

Da allora, vado di frequente in Birmania, e da lei.

Con gli amici dell’Associazione per l’Amicizia Italia-Birmania che oggi porta il nome di Giuseppe Malpeli. Giuseppe ci ha lasciato, alla vigilia della vittoria elettorale di Aung San Suu Kyi nel 2015.

Una lunga storia di amicizia, con le sofferenze e le gioie che l’hanno accompagnata, ci unisce ad Aung San Suu Kyi e al suo popolo. Progetti, scambi di esperienze e di visite ci coinvolgono in diversi campi, dalla sanità alla cultura, dalla scuola all’agricoltura alle imprese, al dialogo tra le religioni. Con noi sono coinvolte le istituzioni e la società civile, e specialmente la Regione Emilia-Romagna e l’Università degli Studi di Parma.

Molto attiva in questi anni l’Ambasciata di Italia a Yangon, prima con l’Ambasciatore Giorgio Aliberti e ora con l’Ambasciatrice Alessandra Schiavo, mentre il Governo italiano lavora nelle sedi internazionali e il Parlamento italiano ha inviato la prima delegazione parlamentare in Myanmar nel settembre 2016, guidata dall’allora Presidente della Commissione Esteri del Senato, Pierferdinando Casini. Antichi rapporti uniscono l’Italia e la Birmania. Oggi l’Italia e il Myanmar sono due paesi amici. In ASEAN l’Italia ha un rapporto prioritario con il Myanmar.

È appena l’inizio. La condivisione del destino, che nasce dall’amicizia, è qualcosa che ha a che fare non solo con la vita personale, ma con la politica, con la vita dei popoli. Essa nasce dalla comune fiducia nella democrazia, il filo che unisce. E costruisce l’unità del genere umano sulla terra.

In questi anni il mio rapporto con il Myanmar è diventato grande parte del mio impegno per la democrazia.

Oggi, da Casa Cervi, l’Istituto dedicato alla memoria della famiglia che con la Resistenza ha cambiato la storia, sento che il discorso della libertà e della democrazia è uno solo, qui da noi e nel resto del mondo. In Europa e in Myanmar.

Aung San Suu Kyi è il Myanmar

Quando la politica è storia, non solo cronaca, come nel caso del Myanmar, la riflessione dovrebbe essere più meditata ed esigente. Etica e responsabilità ne sono chiavi interpretative ineludibili.

Aung San Suu Kyi non è una politica del momento, uscita in una competizione elettorale. Anche se è passata diverse volte da un confronto elettorale, sempre vincente, legittimata democraticamente.

Aung San Suu Kyi è figlia di suo Padre, il generale Aung San, Bogyoke, il Padre della Patria, l’autore dell’indipendenza della nazione dall’Impero britannico. Assassinato a Rangoon nel Palazzo del Segretariato (The Secretariat) a 32 anni il 19 luglio 1947. Allora la piccola Aung San Suu Kyi aveva due anni.

È figlia di Daw Khin Kyi, l’infermiera dell’ospedale di Yangon che sposerà il giovane Aung San, in seguito prima donna Ministro del Welfare, poi Ambasciatrice del suo Paese in India. È a New Delhi che studierà la giovane Aung San Suu Kyi.

L’unità del Paese, l’intera Birmania sono l’eredità del Padre e della sua famiglia che Aung San Suu Kyi sentirà sempre su di sé.[1] Tratterà il profilo del Padre nel suo libro Libera dalla paura, che la farà conoscere al mondo. Raccoglierà di fatto questa eredità nell’agosto del 1988, nei giorni tragici della rivolta degli studenti. Con accanto a sé il marito Michael Aris e i figli Alexander e Kim, la sua nuova famiglia con la quale viveva ad Oxford.

In quell’agosto fatale la chiamò il popolo, attraverso la voce degli studenti e dei professori dell’Università di Yangon. Non era la prima volta che gli studenti imprimevano una svolta alla storia della Birmania, anche a prezzo della vita. Il 26 agosto 1988, nella spianata della Shwedagon Pagoda, di fronte a mezzo milione di persone, tenne il suo primo discorso pubblico.

Il testimone del Padre passava alla figlia[2].

Poi ci sarebbe stato un lungo, difficile tempo di sofferenza, di solitudine, di isolamento, di determinazione, di privazione degli affetti più cari, a causa della libertà per il suo popolo.

Un cammino durato dal 1988 al 2010, quasi sempre dentro il confine segnato dai muri della sua casa a Rangoon, in University Avenue 54, su Inya Lake, fino alla definitiva liberazione.

Questo cammino ha unito profondamente Aung San Suu Kyi al suo popolo. Nella condivisione del dolore che ha visto il sacrificio di migliaia di persone, soprattutto giovani, incarcerate, torturate, uccise. Nella condivisione di un’incrollabile speranza nel cambiamento, in quella luce della democrazia che nel buio della Birmania Aung San Suu Kyi teneva tenacemente accesa.

Quanto lavoro, quanti discorsi, quanto silenzio. E quante insidie.

Fino alle elezioni politiche dell’8 novembre 2015, inevitabili, quando un popolo intero camminò sorridente per le strade delle città e dei villaggi verso i seggi e mandò lei e il suo partito, l’NLD, con il suo pavone che punta la stella sulla bandiera, alla guida del Paese. Fu un giorno di Risurrezione.[3]

Mentre l’esercito, il Tatmadaw, continuava a mantenere non poca parte del potere politico ed economico, secondo la Costituzione voluta dai militari nel 2008.

È la storia della Birmania che ha condotto Aung San Suu Kyi al governo del Myanmar, come un imperativo morale, con il sigillo del dolore. Un sacrificio vissuto come una scelta.[4]

È la sofferenza della Birmania, con la quale Aung San Suu Kyi si è identificata.

È la scelta da lei compiuta, nel lontano 1988, e rinnovata l’8 novembre 2015, di assumere la responsabilità politica della guida del suo popolo, sul terreno minato del potere che lo aveva forgiato per decenni, quello militare, che ne ha fatto una donna politica. Ancor prima del conferimento del Premio Nobel per la Pace, e dopo.

Da quando le era stato conferito il Premio Nobel per la Pace, nel 1991, nel buio della sua casa e della Birmania, il mondo si aspettava che continuassero le sue dichiarazioni e le sue azioni sulla libertà e sui diritti umani. Coerentemente lei sceglieva di assumere, come sempre aveva fatto, la responsabilità del cambiamento politico possibile nel suo Paese, senza ulteriori rotture, senza ulteriori sofferenze. Senza mai venir meno alla fiducia nel metodo della non violenza. “Il dolore è amaro, ma con il ricordo del dolore non si costruisce il futuro”.[5]

Aung San Suu Kyi ha sempre tenuto fermo l’obiettivo e adattato ad esso gli strumenti per conseguirlo, con pragmatismo. Nei lunghi anni della detenzione, della sua resistenza ai militari in nome del suo popolo, Aung San Suu Kyi aveva usato l’unico strumento che aveva a disposizione: la sua personale testimonianza, spesso silenziosa, e la sua parola, quando possibile. Ha proclamato e vissuto la “libertà dalla paura”, quando la paura imprigionava un intero Paese.

Dicendo anche a noi che la paura è l’insidia di ogni democrazia. E spronandoci all’impegno, gli uni verso gli altri: “Usate la vostra libertà per promuovere la nostra”.

Nel 1991 fu Vaclav Havel a favorire il conferimento del Premio Nobel per la Pace ad Aung San Suu Kyi. Un testimone limpido del valore della libertà custodito dalla società civile.

È tornata a Praga, Aung San Suu Kyi, negli anni recenti.[6] Sulla tomba di Vaclav Havel. Il filo rosso dei diritti umani nasce da una profonda, personale sofferenza.

Si può parlare solo di ciò che si paga a caro prezzo. Talvolta non resta che il silenzio, come unica parola dicibile.

Aung San Suu Kyi è il Myanmar, nelle fibre più profonde, nelle sue speranze più radicate.

Come politica ha la missione di costruire la nazione oggi.

Il suo nome ha significati profetici, nella lingua birmana. Esso contiene il nome del Padre (Aung San), della nonna (Suu), della madre (Kyi). E significa: Aung vincente, San straordinario, Suu unisce, Kyi limpido, chiaro.

Le cinque sfide di Aung San Suu Kyi

Le sfide che Aung San Suu Kyi è chiamata ad affrontare, e ad affrontare contemporaneamente, sono molte e complesse. L’una decide anche dell’altra, tutto è intrecciato. Sono alla base della nuova storia della Birmania. Lei è la chiave di volta del cambiamento perché è lei la sfida al potere costituito degli ultimi cinquant’anni. Ha di fronte a sé la sfida della storia: dopo l’indipendenza, conquistata da suo Padre, la democrazia, affidata ora alle sue mani.

Le principali di queste sfide si possono contare sulle dita di una mano.

La prima sfida: il suo ruolo politico di fronte al mondo, la prova del Rakhine

Aung San Suu Kyi è nel cuore dell’umanità. Il conferimento del Premio Nobel, ampiamente meritato, ne ha fatto un’ispiratrice per il mondo. Eppure lei non ha scelto di indossare quell’abito, di restare racchiusa in quella cornice, di rispondere alle attese dell’opinione pubblica mondiale.

Ha scelto di rispondere alle attese del suo Paese, guidandolo con le scelte della politica, nelle condizioni anomale e difficili della politica in Myanmar. Solo lei poteva farlo, e ha deciso di assumere questa missione. La vita come compito, come responsabilità.

È andata oltre la contemplazione dell’icona dei diritti umani, ha scelto l’azione concreta della politica, a servizio del suo Paese. Anche quando questo poteva significare difendersi dall’immagine che la voleva intangibile nel suo ruolo di testimonianza.

Eppure, proprio nella scelta di un ruolo politico per la democrazia del suo Paese, Aung San Suu Kyi dava la più alta testimonianza della sua integrità umana e politica. La forte identificazione del suo destino con quello del suo Paese è stato ed è un esempio per il mondo. La fede nella democrazia come una missione, una vita per la costruzione della democrazia, nella transizione storica del Myanmar. Nessuna cesura, nessun cambiamento in lei tra un prima e un dopo.

Questo il popolo del Myanmar lo ha capito molto bene. Per il popolo birmano Aung San Suu Kyi è la fiducia nella democrazia, nella pace, nel cambiamento. Lei è come una Madre.

Per loro lei non dipende dai riconoscimenti ricevuti, né dal loro ritiro, considerato dal popolo un gesto infantile.

E così credo che sia anche per lei. “I premi vengono, i premi vanno”, ha detto una volta Aung San Suu Kyi. Molto più grandi sono le sfide che sta affrontando.

Non so se la tensione vissuta specialmente con alcuni Paesi Occidentali in questi ultimi tempi, con la sua immagine messa in discussione, sia una sfida per lei o non piuttosto per il mondo. Il quale ha di fronte a sé una donna che in nome della libertà, della democrazia, dei diritti umani, sta attraversando con il suo popolo uno dei terreni più minati della politica nel mondo contemporaneo, in coabitazione con il potere militare, aprendo con fatica, ma con determinazione e coraggio, la strada della democrazia in Asia.

Mentre ancora, accanto a lei, cadono i suoi compagni, come l’avvocato U Ko Ni, il suo principale consigliere costituzionale, musulmano, assassinato all’aeroporto di Yangon il 27 gennaio 2017. Lei, e i suoi, non dissero una parola. Solo nel trigesimo, vissuto insieme con la famiglia, disse: “È stata una grandissima perdita”. In Birmania le parole e i silenzi hanno la misura della tragedia, e la forza della testimonianza.

Accompagnarla e sostenerla in questa traversata, anziché prendere le distanze da lei, dovrebbe essere la scelta di un Occidente lungimirante.

In continuità con suo Padre, Aung San Suu Kyi ha aperto la strada nuova dell’uscita dal regime militare verso la democrazia, con gli strumenti non violenti della democrazia, cioè con la politica.

Può cambiare il contesto, ma la scelta etica e politica resta la stessa. Dopo la liberazione dagli arresti domiciliari, nei cinque anni che hanno preparato la sua vittoria elettorale, e nei quattro successivi come Consigliere di Stato, leader de facto del Myanmar, Aung San Suu Kyi ha continuato ad esercitare le sue responsabilità di politica alla guida del suo Paese. Nelle condizioni date, come ogni politico.

Ho sempre pensato a quel passo di Bonhoeffer: “Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente mortificanti. In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi che in atteggiamento di concreta responsabilità.”[7]

Così ho sempre visto agire Aung San Suu Kyi.

Una scelta, la sua, che ha normalizzato la vita politica del suo Paese, in verità assai anomala. Non solo la figlia di Aung San, non solo il Premio Nobel per la Pace, ma la leader di un movimento politico, la Consigliera di Stato che si muove nel suo Paese, in Asia, nel mondo, nella complessità della storia birmana, nella complessità dell’Asia e del mondo intero.

Essere politica, per il riscatto del suo popolo: questa la scelta morale e umana che fa di Aung San Suu Kyi la chiave per capire oggi il Myanmar e le sue sfide. E per capire lei, più grande dei riconoscimenti che le sono conferiti.

Di fronte alle grandi vicende della storia non servono gli stereotipi. Essi possono solo alimentare equivoci.

E così è accaduto, quando la bandiera dei diritti umani è stata usata per coprire, forse, il vero contrasto con Aung San Suu Kyi, sul terreno delle sue scelte economiche e politiche, non subalterne agli interessi internazionali.

È evidente che la centralità del denaro, e del suo potere globale, è estranea alla sua visione politica. È forse questo che preoccupa l’Occidente?

Uno sguardo più aperto avrebbe forse indagato di più. A partire dal problema del Rakhine, il campo dove l’Occidente ha inchiodato, e crocifisso, la sua icona.

Pochi sanno, forse, che sulla situazione dei musulmani del Rakhine Aung San Suu Kyi ha chiesto conto ai militari subito dopo la sua liberazione, fin dal 2010, e negli anni successivi.

E che immediatamente dopo il suo insediamento al governo, il 1° aprile 2016, ha costituito la Commissione di inchiesta sul Rakhine affidandola a Kofi Annan, già Segretario Generale dell’ONU. Una scelta che collocava la questione sul piano internazionale.

Che un anno dopo, il 25 agosto 2017, Kofi Annan le ha consegnato il Rapporto con le indicazioni per il governo che lei accoglieva, mentre i militari ne prendevano le distanze.

Che nello stesso giorno gruppi di terroristi dell’ARSA (Arakan Rohingya Salvation Arms) attaccavano presidi dell’esercito in Rakhine, facendo vittime. La reazione dell’esercito è stata durissima, ed è iniziato l’esodo dei musulmani del Rakhine verso il Bangladesh.

Che l’Esercito ha pieni poteri sull’Interno, sulla Difesa, sui Confini, i cui ministri sono nominati dal Capo dell’Esercito, che il potere politico dei militari è sancito dalla Costituzione, con il 25% dei seggi parlamentari nominati dall’Esercito, e così nelle Assemblee degli Stati regionali.

La trappola del Rakhine, così preparata e imbandita, era scattata anche contro di lei. Lei rifiutò di entrarci. I media occidentali no.

I media che non hanno detto delle strategie geopolitiche, degli interessi economici in gioco. E hanno accusato il silenzio di lei mentre calava il silenzio sul difficile e complesso equilibrio non solo politico, ma esistenziale del Myanmar.

Aung San Suu Kyi ha preparato un piano di interventi in Rakhine per ricostruire i villaggi, preparare il rientro dei musulmani, sostenere lo sviluppo economico e sociale dell’intera area, favorendo l’integrazione nel rispetto delle diverse etnie e religioni, in nome del pluralismo, mentre l’Esercito ha sempre favorito il nazionalismo religioso. Aung San Suu Kyi ha privilegiato il dialogo con il Bangladesh, e con i Paesi dell’area. Ancora la politica, nella strategia di Aung San Suu Kyi, mentre le organizzazioni internazionali si affrettavano a ritirare i premi che a suo tempo le avevano conferito. In una situazione la cui narrazione storica, e l’analisi politica, sono sconosciute al mondo.

In Arakan buddhisti e musulmani vivevano in pace, poi la povertà e la disperazione, gli estremismi e le espressioni di violenza hanno aperto una nuova fase.

Scrive Massimo Morello, uno dei rari giornalisti occidentali che sono andati sul posto, interessati a capire: “In Rakhine si materializza in modo tragico il tribalismo come nuova categoria geopolitica. Quello Stato, il meno sviluppato del Myanmar, con un tasso di povertà del 78%, dal 2012 è al centro dell’attenzione e della condanna occidentale proprio per le vicende dei Rohingya, intrappolati in un perenne ciclo di persecuzione e fuga”.[8]

Il destino dei musulmani di quel territorio ci sta davvero a cuore? Sta davvero a cuore all’Occidente il destino della pace e della democrazia in Myanmar? O tutto può essere sacrificato alle esigenze degli equilibri economici e internazionali del momento?

Sulla scelta di Aung San Suu Kyi di agire con un pieno ruolo politico si stanno consumando l’equivoco, la distrazione o l’incomprensione che privano l’Occidente della straordinaria occasione di essere in dialogo con quell’area, di essere parte attiva e positiva nel cammino di transizione del Myanmar guidato da Aung San Suu Kyi.

Aung San Suu Kyi ha dovuto affrontare anche questa sfida, quella sulla natura stessa della sua missione. Una missione quasi impossibile.

Da sola, nell’incomprensione di molti.

Questa sfida è tuttora aperta. Dipende anche da noi aprire con lei e con il Myanmar un capitolo nuovo. È una sfida anche per l’Occidente: uscire dall’ambiguità, dire la verità su di sé, sui propri interessi economici e geopolitici, vivere la fedeltà alle proprie radici democratiche, culturali, spirituali in modo concreto.

Incontrare oggi le sfide del Myanmar significa incontrare le nostre stesse sfide: sulla democrazia, sullo sviluppo sostenibile, sulle migrazioni, sul pluralismo religioso ed etnico. Sulla politica, come la via maestra per risolvere i grandi problemi di oggi. Sulla stessa natura del potere. George Orwell, il celebre autore de La fattoria degli animali e 1984, ha scritto anche Giorni in Birmania, sulla scorta della sua esperienza presso l’Indian Imperial Police in Birmania negli anni ’20. Una trilogia, dicono in Birmania. Una satira sferzante sul potere e sulle ingiustizie sociali. Sulle tracce di George Orwell in Birmania è andata poi Emma Larkin, alla ricerca dell’eredità di un Paese dominato dall’apparato di controllo della dittatura militare e dalla resistenza silenziosa e non violenta ad esso. Giorni in Birmania lo vendono i bambini per strada, ai piedi delle Pagode di Bagan, insieme ai loro disegni.

Il potere in Myanmar: uno specchio per il mondo.

Anche in Rakhine, il mondo occidentale e il mondo islamico si posizionano per la grande sfida con la Cina. Che arriva, con i suoi gasdotti e oleodotti, al sud del Rakhine, al porto di Kyaukphyu, con una nuova strategia geopolitica e commerciale.

Ritorna, potente e ineludibile, la sfida che Aung San Suu Kyi ha indicato fin dagli anni della sua vita agli arresti: la libertà dalla paura. Su questo l’Occidente ha bisogno di lavorare ancora molto.

La seconda sfida: la riconciliazione e la pace, il dialogo tra le etnie e le religioni

Tra i primi gesti del suo governo vi è stata la convocazione, nel maggio del 2016, della 2^ Conferenza di Pace di Panglong del XXI secolo. Dopo la prima, quella del marzo 1947, quando il Padre Aung San convocò e unì tutte le etnie della Birmania nel comune obiettivo dell’indipendenza dalla Gran Bretagna.

Una Conferenza per avviare e concludere il processo di pace, partendo dal cessate il fuoco, fino alla riconciliazione nazionale. In un Paese costituito da 135 gruppi etnici riconosciuti, alcuni dei quali organizzati in gruppi armati, in conflitto con l’Esercito, specialmente sui confini.

La Conferenza, tuttora in corso, con momenti di trattative e di stallo, comincia a dare i primi frutti.

Dice Aung San Suu Kyi che senza la riconciliazione e la pace non vi è neppure prospettiva per lo sviluppo economico. Tutto si tiene: anche la costruzione di uno Stato federale dell’Unione del Myanmar, che rispetti le autonomie, è parte della costruzione del cammino di pace.

La Conferenza di Panglong sta coinvolgendo migliaia di persone, con negoziati con una ventina di organizzazioni etniche armate. Vi è in gioco il tema politico più grande, la sfida principale del Myanmar: come costruire l’unità delle diversità. Diversità di storia, lingua, costumi, interessi che la storia ha definito in modi così diversi. La Repubblica del Myanmar si chiama Repubblica dell’Unione del Myanmar. Nel nome vi è già il carattere. Lì è l’identità nazionale.

La democrazia come lo spazio dell’unità e dell’esercizio della diversità: questa la sfida di oggi, poiché tutto è da costruire, a partire dal cessate il fuoco.

E tuttavia, nelle strade di Yangon, di Mandalay, o nei villaggi rurali che costituiscono la Birmania, il sorriso è uno solo, e i colori della terra, dei fiori, dei cibi, delle storie sono la luce di questo Paese.

Che ha bisogno di grandi cambiamenti, ma il primo è proprio segnato dalla riconciliazione e dalla pace.

Religioni diverse convivono da secoli in Birmania. In un quartiere di Yangon ho visto il Tempio indù, la Pagoda buddhista, la Moschea islamica, la Sinagoga ebraica, la Chiesa cristiana, perfino la Chiesa armena, a me molto cara.

Si moltiplicano gli incontri del dialogo tra le religioni. La maggioranza è buddhista, ma sono presenti cristiani di varie confessioni, musulmani, bahà’i, indù. Si sono tenuti due Forum di Religions for Peace a Naypyidaw con l’intervento di Aung San Suu Kyi, un terzo è in programma a novembre.

Il Paese cresce tutto insieme, anche con la spinta della società civile e dei giovani, a cui apparterrà il futuro pacifico della Birmania.

Ma le insidie non mancano. In questi anni è sorto in Myanmar un movimento nazionalista buddhista, il MA BA TA, guidato dal monaco Ashin Wirathu, sostenuto dai militari, che predica l’odio contro i musulmani. Oggi Wirathu, in fuga, è inseguito da un mandato di arresto del governo. Un altro passaggio del confronto di Aung San Suu Kyi con i militari.

“Pazienza e impegno”, dice Aung San Suu Kyi. Lei sa quanto sia complesso costruire una nazione, e come siano necessari “tempo e perseveranza”.

La riconciliazione nazionale nasce anche dalla riconciliazione tra le persone.

È di questi giorni il gesto di Aung San Suu Kyi che è diventato simbolico per l’intero Paese.

In occasione della morte del brigadiere generale Thein Naing, genero dell’ottava figlia di Than Shwe, a lungo capo militare del Myanmar, Aung San Suu Kyi ha inviato una lettera scritta a mano di sincere condoglianze a Than Shwe, responsabile della sua prigionia. “Prego per la pace di chi è partito, per te e la tua famiglia”. La risposta postata su Facebook è stata: “Tantissime grazie”.

Vita e politica sono così intrecciate in Myanmar. Solo parole autentiche, come i silenzi, possono rappresentarle.

La terza sfida: la transizione verso la democrazia, il cambiamento della Costituzione, le elezioni politiche del 2020

Quando l’ho incontrata la prima volta, nel 2013, Aung San Suu Kyi pronunciò diverse volte una parola chiave nella conversazione: change, cambiamento.

Si riferiva soprattutto al cambiamento della Costituzione.

Varata dai militari nel 2008, essa raccoglie, in un volume pesante come un codice, tutte le norme che assegnano potere politico ai militari e impediscono a lei, leader dell’NLD, di esercitare il ruolo che l’elettorato sarebbe pronto a assegnarle. Come è noto, la sua condizione familiare, di sposa ad uno straniero, deceduto nel 1999, e di madre di figli anglosassoni, non le consente di assumere, secondo la Costituzione in vigore, la più alta responsabilità istituzionale.

La Costituzione è la struttura portante di un Paese, quella ancora in vigore in Myanmar non è democratica.

“È una delle più rigide del mondo”, ha detto di recente Aung San Suu Kyi.

Il cambiamento della Costituzione significa assegnare all’Esercito un ruolo di servizio al Paese, non politico; costruire la struttura federale dello Stato; riconoscere tutte le libertà; descrivere uno Stato di diritto; combattere la corruzione.

Un compito decisivo, per un Paese appena uscito dalla dittatura e, prima, dal colonialismo britannico. Il richiamo allo Stato di diritto è continuo in Aung San Suu Kyi.

Di recente, nell’anniversario della morte di U Ko Ni, Aung San Suu Kyi ha annunciato che in Parlamento si sarebbe costituita una Commissione per l’esame degli emendamenti per il cambiamento della Costituzione. I militari parlamentari hanno discusso, ma alla fine il lavoro è iniziato. Forse qualche piccolo cambiamento sta nascendo. Aung San Suu Kyi sta seminando, il raccolto verrà.

Nel governo del Paese, a tutti i livelli, e nel Parlamento, nel Paese intero è aperto il problema della formazione di una nuova classe dirigente. Con le elezioni del 2015 Aung San Suu Kyi ha portato in Parlamento i candidati dell’NLD che per la prima volta affrontavano le sfide dentro le istituzioni. Molti di essi erano stati a lungo in carcere, pochi di essi erano stati all’estero.

Le elezioni politiche del 2020 segneranno un altro passaggio nella storia politica del Myanmar. Un’altra tappa, nel consolidamento della dialettica democratica tra le diverse forze politiche, nella crescita della società civile e delle sue organizzazioni, nel passaggio generazionale. La società della Birmania sta cambiando in questi anni, il prossimo appuntamento elettorale vedrà il popolo ancora più consapevole del suo ruolo nelle scelte per il proprio futuro.

Anche la scena politica è in evoluzione. Nuovi partiti stanno costituendosi, come è naturale in una democrazia nascente. Alcuni sostenuti dai militari. L’NLD affronta una fase nuova, con l’obiettivo di vincere ancora una volta le elezioni. Un nuovo governo, con la guida dell’NLD, è nelle attese di quanti sperano in una evoluzione positiva e pacifica della politica in Myanmar in questa fase. La Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, e il Presidente della Repubblica U Win Myint, dell’NLD, saranno candidati alle prossime elezioni politiche.

Quel che è certo è che nessuno vuole un ritorno all’indietro. La guarigione della nazione, con il dialogo, con l’unità, con la pace è appena cominciata. Le elezioni politiche del 2020 sono la vera, prossima sfida per Aung San Suu Kyi e il Myanmar.

Al centro della vita politica del Myanmar, oggi come ieri, vi è il rapporto tra Aung San Suu Kyi e i militari. Da sempre è il nodo. Ed è il terreno sul quale sta svolgendosi questa fase di transizione che è la via pacifica all’uscita definitiva della Birmania dalla tutela militare.

La parola transizione sta a delineare ciò che è iniziato ma non è ancora compiuto. Cinquant’anni dopo un severo regime militare, si è lasciata la sponda dell’antico regime e si è in piena navigazione, verso l’altra sponda, la democrazia.

Questa navigazione è nella responsabilità di tutti, anche dei militari. Avviene sotto la guida di Aung San Suu Kyi, che ha scelto la non violenza, il dialogo, il compromesso, di volta in volta, per consentire il cambiamento possibile.

Un perenne confronto, in fondo un’altra resistenza. È la democrazia, non solo come fine ma anche come metodo.

Una partita difficile, quella di Aung San Suu Kyi con i militari. Ma come non era prigioniera del loro schema quando era agli arresti, così ora è lei a costruire anche questa fase, ad essere il punto di riferimento di tutti, compresi i militari. È lei l’asse attorno a cui ruota la transizione, lei ha il timone in mano. Nonostante molte leve del potere continuino ad essere in mani altrui.

La quarta sfida: l’economia, la crescita, l’uscita dalla povertà

Quando ha potuto, Aung San Suu Kyi ha viaggiato per il Paese, lo fa anche oggi di frequente. Conosce la sua gente, i loro bisogni, il loro sogno: l’acqua, le strade, l’elettricità, l’educazione, la sanità. “Questi loro sogni quanto sono basici, quanto sono modesti. Forse sono troppo semplici per poter attrarre gli interessi del mondo, ma sono di una importanza mostruosa per loro, per noi”.[9]

Il loro sogno è il suo sogno. Nasce così la politica economica di un governo che in questi anni ha migliorato la situazione delle strade, dei trasporti, dell’uso dell’energia elettrica, le condizioni sociali.

Ma tanto resta ancora da fare, anche nell’attrazione di investimenti dall’estero. Il Myanmar è in Asia, con un lungo confine con la Cina. Aung San Suu Kyi ha collocato lì il suo Paese, nella sua area naturale, intensificando i rapporti, oltre che con la Cina, con i Paesi di ASEAN, con il Giappone, l’India, l’Australia, la Corea del Sud, tutti presenti in Myanmar, anche con grandi investimenti.

Partner naturale è la Cina, anche con la recente Belt and Road Initiative, di cui il Myanmar è partecipe.

Ricordo un discorso di qualche anno fa di Aung San Suu Kyi, reduce dal primo viaggio in Cina: il nostro sviluppo non sarà come quello di altri Paesi vicini, sarà orientato sul bene del popolo. È un messaggio chiaro: ambiente, sostenibilità e sicurezza sociale sono beni prioritari. La partita è aperta, agli investitori stranieri dice: non venite solo a fare business.

La grande riforma dell’agricoltura, che interessa il 75% della popolazione, il turismo, l’industria, le miniere sono capitoli fondamentali dell’economia del Paese, da far ripartire dopo l’immobilismo degli ultimi decenni, nell’impoverimento generale.

La previsione di crescita è oggi al 6%, in un Paese che è due volte e mezzo l’Italia, con 55 milioni di abitanti. Con il 32,2% al di sotto della soglia di povertà, con 69 anni di speranza di vita per le donne e 64 per gli uomini. Se si osserva, sono le donne molto attive nel Paese.

Cruciale è il cambiamento della Pubblica Amministrazione, strumento imprescindibile dello sviluppo economico. È stata istituita una commissione, presieduta da Aung San Suu Kyi, per la costituzione in Myanmar di una banca dati, ancora assente.

Vi sono grandi problemi aperti, come il progetto della diga di Myitstone che la Cina vorrebbe realizzare, a suo vantaggio. In un messaggio vibrante il Card. Charles Bo di Yangon ha difeso la Madre Irrawaddy, il fiume che attraversa il Paese dandogli la vita.[10]

Un’altra sfida difficile per Aung San Suu Kyi, chiamata ad un’altra mediazione necessaria.

La Birmania sta correndo. È possibile che si saltino alcune tappe della crescita. Il progresso delle nuove tecnologie sta attraversando ogni area e ogni ceto sociale, i giovani sono il grande motore del futuro. Sono il 45% della popolazione. Scuola, università, ricerca, formazione tecnica, sanità sono fondamentali oggi per il popolo birmano. La conoscenza è il primo obiettivo, insieme al welfare, e alla promozione della vita dei giovani, minacciati dalle droghe.

Sfida economica, sfida sociale, sfida della convivenza civile, sfida democratica: sono una cosa sola per il Myanmar oggi e per Aung San Suu Kyi. Una mole di problemi, eppure è la speranza di una nazione che muove tutte queste cose e le sostiene. È il sogno di Aung San Suu Kyi, più forte di ogni difficoltà, di ogni perdita, di ogni sofferenza.

La quinta sfida: il Myanmar, tra Asia ed Europa, per un nuovo dialogo con l’Occidente

Alla guida del Myanmar oggi vi è una donna. Come talvolta accade in Asia, e sempre più nel resto del mondo. Vi è una donna birmana, che appartiene al suo Paese, alla sua storia, alla sua anima in modo così singolare.

Vi è una donna cresciuta in India, che ha studiato ad Oxford, che ha lavorato all’ONU a New York, che ha studiato in Giappone, che è vissuta in Nepal. Per anni lontana, privata della libertà, e poi restituita al mondo. Una combattente.

Dove porterà il Myanmar? Questo Paese tra la Cina e l’India[11], uno dei più grandi dell’ASEAN, così vicino alla Cina, con legami stabili con il Giappone, l’Australia, la Russia? Con legami culturali così profondi con l’Europa e con l’Italia, da sempre intensi con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti? Chi dialogherà con Aung San Suu Kyi, in Occidente, con sincerità e apertura?

Ho vissuto là i giorni della visita di Papa Francesco, nel novembre 2017. Un dialogo spirituale intensissimo, un cammino che passa per le contrade del mondo con la forza della spiritualità, della non violenza, del pluralismo e del dialogo tra le etnie e le religioni, della pacificazione e della riconciliazione nazionale.

Questo oggi è il baluardo di difesa contro la violenza, gli interessi militari ed economici, i fondamentalismi religiosi. Questa è oggi la frontiera di Aung San Suu Kyi, come sempre in solitudine.

Vi sono persone che indicano nel mondo nuove prospettive. Con una grande forza interiore e con lucidità, come Papa Francesco. Non a caso nel mirino dei potenti.

E come Aung San Suu Kyi che oggi, come ieri, affronta enormi sfide con la stessa coerenza e con lo stesso coraggio.

Un dialogo nuovo con l’Europa e con l’Occidente sarebbe per il Myanmar assai utile, sia sul versante dell’economia sia sul versante della politica e della democrazia. Ben oltre il perimetro del Premio Nobel per i diritti umani assegnato alla leader che oggi è alla guida del Myanmar. Soggetti istituzionali e privati sono presenti, nel dialogo con il Myanmar, l’Unione Europea ha la sua Ambasciata a Yangon.

Ma sono necessarie la politica, la diplomazia degli Stati e quella delle organizzazioni internazionali, e la diplomazia civile di associazioni, università, cittadini.

Nel tempo nuovo del Myanmar, la cultura, il diritto, la scienza, la democrazia, la spiritualità che si muovono in Europa non possono essere assenti.

E qui da noi non possiamo perdere la bellezza della Birmania, la sua spiritualità, la sua umanità. La Birmania è una nazione complessa, l’Europa conosce la complessità, molto abbiamo da imparare gli uni dagli altri. Il tempo nuovo della Birmania, il tempo nuovo dell’Asia sono anche il tempo nuovo di un’Europa vigile e unita, la forza gentile di cui il mondo ha nostalgia.[12]

Che cosa porterà l’Europa all’Asia, che cosa porterà l’Asia all’Europa?

Il cammino con il Myanmar ci consente di entrare in questo futuro. Di entrare nel secolo dell’Asia.

Una politica spirituale

Di recente il The Economist Times ha scritto di Aung San Suu Kyi: “Potete criticarla perché adesso è di moda farlo, ma la verità è che Suu Kyi è una politica spirituale, una razza così rara che noi non sappiamo più riconoscerla”[13].

Sì, l’Occidente fa fatica a riconoscerla.

Eppure a me pare che sia questa la dimensione più forte del suo ruolo di politica: la spiritualità.

Aung San Suu Kyi ha una profonda esperienza spirituale. Con la sua cultura buddhista, con le sue radici che si diramano in famiglia, fino al nonno cristiano che ogni mattina da piccola le faceva leggere una pagina della Bibbia. Suo Padre, Aung San, aveva avuto da ragazzo come maestro di buddhismo un italiano, Salvatore Cioffi, si chiamava Lokanatha. Aveva un fratello gesuita.

Ho sempre pensato che l’autorità morale di Aung San Suu Kyi provenga dalla sua profonda libertà interiore, alimentata dalla sua spiritualità, dalla consapevolezza sostenuta dalla meditazione quotidiana. Sono noti la sua riflessione su Gandhi, il suo legame con la Rivoluzione di velluto di Vaclav Havel, con Nelson Mandela e con Desmond Tutu.

La politica come rivoluzione spirituale è il titolo, molto appropriato, che il Magnifico Rettore dell’Università di Bologna Ivano Dionigi ha scelto per la pubblicazione della lectio magistralis di Aung San Suu Kyi nella sua Università, il 30 ottobre 2013.

Ho sempre pensato che l’autorità politica che lei esprime nasca dall’autorità di coloro che soffrono, come dice il teologo Johann Baptist Metz.[14] Un’autorità morale che fonda lo stesso discorso della politica e della democrazia.

Senza il rispetto di questa autorità morale della sofferenza la democrazia diventa fragile e declina.

Per questo il Myanmar, e Aung San Suu Kyi, sono oggi un segno di contraddizione. Indicano al mondo il problema della verità, mentre il mondo usa più facilmente la menzogna, anche nell’informazione.

La questione del silenzio di Aung San Suu Kyi sulla vicenda del Rakhine, così agitata dai media, sta tutta qui: quando la parola può parlare della sofferenza? E come? Qual è il linguaggio della politica che affronta la sofferenza?

Talvolta è il silenzio la parola più eloquente di un discorso responsabile.

Una politica pragmatica come Aung San Suu Kyi, sempre concreta, attenta in ogni momento, deve avere una grande tenuta morale e spirituale che ne sorregge la giornata e la vita. Deve avere una grande tenuta spirituale dentro di sé chi non soccombe a prove ardue, chi continua a guardare al futuro, con una visione di lungo periodo. Sa che altri verranno dopo di lei, altri raccoglieranno i frutti della sua semina.

Intanto la sua vita, qui e ora, è il dono più grande che può fare alla sua gente, e al mondo.

Dice Bonhoeffer:

“Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno;

solo allora, non prima,

smetteremo con piacere

di lavorare per un futuro migliore”.

Così vedo Aung San Suu Kyi, sempre al lavoro, nel suo silenzio interiore. Con la sua gentilezza, con la sua ironia, con la sua spontaneità, con il suo sguardo diretto e intenso che nulla perde di ciò che le è affidato.

Così vedo il futuro dell’Europa, in dialogo con lei. Attento alle ragioni spirituali che cambiano la storia e la politica, non meno di quelle economiche e militari.

“È meglio perdere la reputazione che la carità”[15], così Caterina da Siena, una donna politica spirituale del 1300.

La profezia, tra Occidente e Oriente, continua. Specialmente la profezia femminile.

Bibliografia italiana

  1. Aung San Suu Kyi, Libera dalla paura, Sperling & Kupfer Editori, 1996;
  2. Aung San Suu Kyi, La mia Birmania, TEA, 2012;
  3. Aung San Suu Kyi, Lettere dalla mia Birmania, Sperling & Kupfer Editori, 2007;
  4. Cecilia Brighi, Le sfide di Aung San Suu Kyi per la nuova Birmania, eurilink, 2016;
  5. Win Tin e Sophie Malibeaux, Una vita da dissidente, Obarrao Edizioni, 2011;
  6. Thant Myint-U, Myanmar. Dove la Cina incontra l’India, add editore, 2015;
  7. Massimo Morello, Nella Siria d’Asia. Reportage dal misterioso Rakhine, in Il Foglio, 10 febbraio 2019;
  8. Francesco Montessoro, Di Padre in Figlia. Leadership femminili in Asia, in Rivista di Politica, 03/2015, Rubbettino Editore;
  9. George Orwell, Giorni in Birmania, Oscar Mondadori, 2006;
  10. Emma Larkin, Sulle tracce di George Orwell in Birmania, add editore, 2005;
  11. Andrea Castronovo, La primavera birmana: analisi della transizione politica in Myanmar, Tesi di Laurea all’Università degli Studi di Pavia, Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali, anno accademico 2015-2016;
  12. Luciano Larivera S.I., L’alba democratica del Myanmar, in La Civiltà Cattolica, n. 3900, 15 dicembre 2012, pag. 619;
  13. Benoît Vermander S.I., La nascita di una teologia pan-asiatica, in La Civiltà Cattolica, n. 4010, 15 luglio – 5-19 agosto 2017, pag. 114;
  14. Antonio Spadaro S.I., Diplomazia e profezia. Papa Francesco in Myanmar e in Bangladesh, in La Civiltà Cattolica, n. 4020, pag. 575;
  15. Hillary Rodham Clinton, Birmania: la signora e i generali, in Scelte difficili, Sperling & Kupfer Editori, 2014, pag. 131-163;
  16. Wah Wah Htay, Wai Nu Kyi, Giordano Merlicco, Mappa etnogastronomica del Myanmar, in Motta, Food and Culture: History, society communication, Nuova Cultura, Roma, 2017, vol. II, pp. 273-87;
  17. Albertina Soliani, Tutto si muove, tutto si tiene. Vita e politica. Quasi un bilancio per la generazione che viene, Ed. Diabasis, 2013.

Albertina Soliani – Curriculum

È Presidente dell’Istituto Alcide Cervi in Italia, per la memoria della Resistenza.

È stata membro del Parlamento per l’Ulivo e il Partito Democratico, nel Senato della Repubblica, dal 2001 al 2013.

È stata membro delle Commissioni Parlamentari Cultura e Istruzione, Sanità, Industria, Ambiente, Agricoltura e delle Politiche dell’Unione Europea.

È stata membro della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale e della Commissione Parlamentare dell’Infanzia.

È stata membro dell’Assemblea del Consiglio d’Europa.

Dal 2008 al 2013 è stata Presidente dell’Associazione Parlamentare Amici della Birmania.

Sostiene l’Associazione per l’Amicizia Italia Birmania Giuseppe Malpeli.

È stata Sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel 1° Governo Prodi dal 1996 al 1998.

Laureata in Pedagogia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è stata insegnante e Direttrice Didattica.

Ha promosso attività sociale e associative nel campo dell’istruzione, dei diritti del malato, del dialogo interreligioso. È Ambasciatrice di Pace dell’Universal Peace Federation (UPF), ed è promotrice dell’Unione Parlamentare per la Pace dell’UPF.

Ha partecipato ai movimenti delle donne, nel 1995 ha fatto parte della delegazione italiana alla IV Conferenza Mondiale delle Donne organizzata dall’ONU a Pechino.

Vive a Parma (Italia).


[1]      Introduzione di Michael Aris al libro di Aung San Suu Kyi, Libera dalla paura, Sperling & Kupfer Editori, 1996

[2]    Francesco Montessoro, Di Padre in Figlia. Leadership femminili in Asia, in Rivista di Politica, 03/2015, Rubbettino Editore

[3]    Discorso del Card. Charles Bo

[4]      Aung San Suu Kyi, La mia Birmania, ed. TEA, 2012, pag. 151

[5]      Aung San Suu Kyi, Discorso del 25° anniversario dell’8-8-’88, Yangon, 8-8-2013

[6]      Aung San Suu Kyi, Lecture on Challenges of Transition, at Charles University, Praga, 3 giugno 2019

[7]      Dietrich Bonhoeffer. Resistenza e resa, San Paolo, 1988, pag. 64

[8]    Massimo Morello, Nella Siria d’Asia. Reportage dal misterioso Rakhine, in Il Foglio, 10 febbraio 2019

[9]      Aung San Suu Kyi, Lecture on Challenges of Transition, at Charles University, Praga, 3 giugno 2019

[10]   Card. Charles Bo, Messaggio, L’Osservatore Romano, 1° febbraio 2019

[11]  Thant Myint-U, Myanmar. Dove la Cina incontra l’India, add editore, 2015

[12]  Tommaso Padoa Schioppa, Europa, forza gentile, Il Mulino, 2001

[13]  Abhijit Dutta, in The Economist Times, 25 novembre 2018

[14]   Johann Baptis Metz, Sul concetto della nuova teologia politica. 1967-1997, Ed. Queriniana, 1998, pag. 211

[15]  Elena Ascoli, Caterina da Siena. Mistica dell’incontro, Ed. Paoline, 2016

Rivista di Studi Politici

Istituto San Pio V – Roma

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